Month: dicembre 2010

La donna dell’orco italiano – E buon anno!

Comprese improvvisamente perché il viso di lui l’ossessionava, perché aveva sentito un terribile bisogno di rivederlo: per farsi possedere, per dissolversi in lui, per bruciare, bruciare e bruciare sino a ridursi in cenere su quel corpo e in quegli occhi.
La donna del tenente francese – J. Fowles

Il libro dell’inquietudine – Pessoa

Una delle mie preoccupazioni costanti è capire com’è che esista altra gente, com’è che esistano anime che non sono la mia anima, coscienze estranee alla mia coscienza; la quale, proprio perchè è coscienza, mi sembra essere l’unica possibile. Capisco che colui che sta di fronte a me e che mi parla con parole uguali alle mie, o fa dei gesti analoghi a quelli che io faccio o potrei fare, sia in qualche modo un mio simile. Eppure mi succede la stessa cosa con le figure delle illustrazioni che sogno, con i personaggi di romanzo che leggo, con le persone da dramma che si avvicendano sul palcoscenico attraverso gli attori che le interpretano.
Credo che nessuno ammetta davvero la reale esistenza di un’altra persona. Può ammettere che tale persona sia viva, che pensi e senta come lui: eppure ci sarà sempre un ineffabile elemento di differenza, uno scarto materializzato.
Ci sono figure d’altri tempi, immagini-fantasmi di libri che sono per noi realtà maggiori di certe insignificanze incarnate che parlano con noi dal terrazzo o che ci guardano casualmente dal tram, o che ci sfiorano passando nel caso morto delle strade. Gli altri non sono per noi altro che paesaggio e, quasi sempre, il paesaggio invisibile di una strada nota.
Considero mie, con maggiore consanguineità e intimità, talune figure che sono scritte nei libri, certe immagini che ho conosciuto nelle illustrazioni, più di molte persone che sono considerate reali, che sono fatte di quell’inutilità metafisica chiamate carne e ossa. E “carne  e ossa”, infatti, è una perfetta descrizione: sembrano cosa fatte a pezzi ed esposte sul banco di marmo di una macelleria, morti che sanguinano come la vita, gambe e cotolette del Destino.
Non ho vergogna di avere tali impressioni, perché ho capito che tutti noi abbiamo impressioni simili. Il disprezzo che sembra esistere fra uomo e uomo, l’indifferenza che permette che si uccidano persone senza capire che si uccide, come fra gli assassini, o senza pensare che si sta uccidendo, come fra i soldati, sono dovuti al fatto che nessuno presta la dovuta attenzione alla circostanza, che sembra astrusa, che anche gli altri sono anime.
In certi giorni, in certe ore che mi reca chissà quale brezza, che mi apre chissà quale porta che si apre, sento all’improvviso che il droghiere dell’angolo è un ente spirituale, che il commesso che in questo momento si affaccia sulla porta sopra il sacco di patate è un’anima capace di soffrire.
Quando ieri mi hanno detto che il garzone della tabaccheria si era suicidato ho avuto l’impressione di menzogna. Poveretto, anche lui esisteva!!! Ce ne eravamo dimenticati tutti, tutti noi che lo conoscevamo allo stesso modo di coloro che non l’hanno mai conosciuto. Domani lo dimenticheremo meglio. Ma che egli avesse un’anima, questo è certo: era indispensabile per uccidersi. Passioni? Angosce? Senza dubbio…Ma per me, come per tutti gli altri, resta solo il ricordo di un sorriso stolto sopra una giacca di fustagno, sporca e con le spalle diseguali. E’ quanto resta a me di chi ha sentito così intensamente da uccidersi perché sentiva; perché, in fin dei conti, nessuno si uccide per nient’altro…Una volta, mentre mi vendeva le sigarette, ho pensato che presto sarebbe diventato calvo. Non ha avuto tempo di diventarlo. E’ uno dei ricordi che mi rimangono di lui. Quale altro ricordo mi sarebbe potuto restare visto che questo non appartiene a lui, ma a un mio pensiero?
E all’improvviso vedo il cadavere, la bara in cui è stato messo, la fossa, totalmente estranea, nella quale è stato probabilmente portato. E mi accorgo, sempre all’improvviso, che il commesso della tabaccheria era, in certo qual modo, con la sua giacca sbilenca e tutto il resto, l’intera umanità.
E’ stato solo un momento. Oggi, ora, chiaramente, come l’uomo che io sono, egli è morto. Nient’altro.
Sì, gli altri non esistono…E’ per me che questo tramonto pesantemente alto trattiene i suoi colori nebbiosi e duri. Sotto il tramonto, senza che io lo veda scorrere, il grande fiume si increspa per me. Per me è stata fatta questa piazza aperta sul fiume che si sta gonfiando per la marea. Oggi nella fossa comune è stato sepolto i garzone della tabaccheria. Non è per lui il tramonto di oggi. Ma, poiché ho pensato questo, e senza che lo voglia, neppure per me è questo tramonto.

LeQuattroStagioni

Vi prego, estirpatemi da me stessa. Io non ne voglio più sapere di me. Prendetevi pure tutto quello che volete, sostituitevi a me, fatemi diventare quello che siete. Sarebbe l’atto di pietà più grande, mi sbarazzerebbe in un colpo solo di me e di voi.

Stabat Mater – T. Scarpa


Stabat Mater – Tiziano Scarpa

Tanto per cambiare, anche questa notte l’angoscia mi ha presa d’assalto. Ormai è una bestia che conosco bene, so come devo fare per non soccombere. Sono diventata un’esperta della mia disperazione.
Io sono la mia malattia e la mia cura.
Una marea di pensieri amari sale e mi prende alla gola. L’importante è riconoscerla subito e reagire, senza lasciarle il tempo di impadronirsi di tutta la mia mente. L’onda cresce rapida e ricopre tutto quanto. E un liquido nero, velenoso. I pesci moribondi salgono in superficie, con le bocche spalancate, annaspano. Eccone un altro, viene su boccheggiando, muore. Quel pesce sono io.
Mi vedo morire, mi guardo dalla riva, ho i piedi già bagnati di quel liquido nero e velenoso.
Arriva in superficie un altro pesce agonizzante, è il pensiero del mio fallimento, sono ancora io quella, sto morendo un’altra volta.
Perché venire a galla? Meglio morire sott’acqua. Vengo tirata giù. Mi sento sprofondare. È tutto buio.
Poi sono di nuovo sulla riva, in piedi, ancora io, ancora viva, guardo il mare velenoso, nero fino all’orizzonte, i pesci morti pullulano, con le bocche spalancate. Sono io, siamo io, mille volte, mille pesci in agonia, mille pensieri di distruzione, sono morta mille volte, continuo a morire senza smettere di agonizzare. Il mare si gonfia, sale, è velenoso, nero.
Sono il pesce con gli occhi velati, salito in superficie per morire. Guardo in alto, sopra la mia testa. C’è un orizzonte livido, le nuvole sono scure, come un mare capovolto, il ciclo nuvoloso è fatto di onde immobili, sfuocate.
Vedo la riva di un’isola minuscola, là in fondo c’è una ragazza che si guarda intorno. Mi guarda mentre muoio, non può fare niente per me, quella ragazza sono io.
Fai qualcosa per me, ragazza sulla riva, fai qualcosa per te stessa. Non lasciarti amareggiare da ciò che senti dentro di te. Dovunque ti volti vedi la tua disfatta. La marea nera sale, è piena di pesci morti. Reagisci, non soccombere.
Bisogna fare in fretta, prima che io sia completamente sopraffatta, finché c’è un angolino della mia mente che riesce a vedere che cosa le sta succedendo. Bisogna trascinarsi lì con tutte le forze, ritirarsi in quel cantuccio ancora capace di prendere decisioni, e dire: io.